non importa se il muro parla
chi corre e tace
se il piede spinge su un pedale solo
se arriva una nube che fa notte
io sono dall’altra parte;
non importa la pioggia e nemmeno il suo sospetto
la spia che fa il vento
non importa se l’autunno mi reclama
gli occhi e la rossa vena
meno ancora conta la trama
non importa l’inchiostro quasi finito
e se rimando di scriverti
dalla porta accanto
non importa se il pane è indurito
se non ho spostato il tavolo
se ho sentito quel volo
che fanno le tue risate
passeri che hanno scelto l’albero più folto
se fanno convegno, vivi frutti del cielo,
non importa se la piastrella è rotta
se la stanza ha perso una parete
se il cardine del sogno è bloccato
se il gomito mi duole e le ossa dietro
come un filo elettrico,
non importa il vestito
del risveglio
e il segno che tracci
perché ci resti dietro
io sono di vetro;
non importa se la grazia della mano
rimane sospesa
come una sorpresa che aveva preparato
per scaldarti il fiato,
non importa se ogni futuro
è posticipato
io sono la più piccola frazione del presente
e sarà così facile andarsene
un battere di ciglia,
di neve mi riempio il cuore
come un bicchiere e fingo che sia dolce
non importa
io sono al suo bianco breve, fedele.
ti attorniano gli angeli infanti del palazzo,
senza naso, e le mani dee, le mani non custodite nelle mani
con le dita sgretolate, ad una ad una, che non possono difendere la grazia del gesto né dal tempo né dal caso.
*
lasciami i fiori sul gradino
senza acqua, senza parole, un segno di aprile,
sarà la tenerezza a farmi salire
avrò leggeri i piedi, passo passo di neve,
arriverò da te in cristallo, quasi senza respirare.
*
stanotte reciterò il breviario della pioggia,
litanie discrete, senza gloria;
invocherò le tue ginocchia, il tuo petto,
come da bambina, cercherò il perdono
per un peccato commesso sul momento, piccolo.
*
il mattino tortora.
il parco costeggiato.
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L’incontrai, la prima volta, a scuola.
Da un vecchio registratore lo sentii raccontare la storia di Piero, il soldato che era morto tra i papaveri.
Io e la mia amica del cuore, quella sera, indossammo i rispettivi grembiuli rosa e azzurro (la divisa di un altro colore) e inscenammo millemila volte la storia così come l’avevamo capita, ripetendo i brandelli della canzone che eravamo riuscite ad afferrare dopo averla ascoltata una sola volta.
Nella mia immaginazione infantile, già fertile, tragica e grandiosa, i soldati morivano entrambi, declamando all’unisono l’ultima strofa.
Il Mistero che portava con sè m’avrebbe bucato il cuorequando lo incontrai di nuovo, circa dieci anni dopo: io era una tredicenne con gli occhi vuoti, lui raccontava la storia di una bambina segregata in un tempio, del figlio che portò in grembo -lo chiameranno figlio di Dio/ parole confuse nella mia mente/ svanite in un sogno, ma impresse nel ventre-, il dio così uomo da morire come un uomo qualsiasi.
Ricordo distintamentente quel pomeriggio: con gli occhi spalancati e le mani brucianti, sentii Piero sparare più forte e lui prese il posto di tutti gli altri che non avevo potuto amare come lui, perchè non erano lui.
Poi vennero il blasfemo, il giudice e il matto. Quella donna con le labbra di carne e i capelli di grano, i ciliegi feriti, le lingue rosse al polline dei fiori, e l’uomo che morì mentre la stringeva.
Sognai così forte che mi uscì il sangue dal naso.
Adesso lo acclamano quelli che un tempo l’avrebbero zittito, e quelli che lo zittirono. Fazio gli dedica uno speciale, ma se l’avesse ospitato gli avrebbe permesso di cantare le tre canzoni che si schitarrano in spiaggia come canzoni qualsiasi, e lui non ci sarebbe andato. Viene definito ‘un grande artista’ da portatrici sane del vuoto cosmico, presentatrici dal sorriso commosso su cui lui avrebbe sputato, che non potrebbero mai ascoltarlo, e di certo non l’hanno mai fatto.
Non vi sarebbe piaciuto. Non piacerebbe a loro.
Beveva. Era un bastardo con le donne.
Morì perchè si è distrutto i polmoni fumando.
Sono sicura che perse intere notti guardando le televendite, ebbe paura di non farcela infinite volte e infinite volte fu ridicolo, pavido o goffo.
Ma
.. adesso aspetterò domani
per avere nostalgia
signora libertà signorina fantasia
così preziosa come il vino così gratis come la tristezza
con la tua nuvola di dubbi e di bellezza.
e il tuo nome viene su oggi come una parola dura
da dire ancora – per tutto quello che ci hanno
buttato dentro, prima di noi e intorno – ma senza
paura, ostinata e fiera, ha occhi che stappano via
anche il tempo, le ultime cicatrici sotto neve
rimaste in alto, nei pensieri prima ancora che
là dove il freddo è cuore lento e incredulo
e si scioglie piano, scorrendo alle mani, alla lingua.
Il nome è questo amore che è passato di qui
come per caso – come se fosse possibile il caso –
il buio che si tiene dentro la sua notte di occhi
non più che una promessa appoggiata al fianco.
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Ci sono a Venezia tre luoghi magici e nascosti: uno in Calle dell’Amor degli Amici; un secondo vicino al Ponte delle Maravegie; un terzo in Calle dei Marani a San Geremia in Ghetto. Quando i veneziani (qualche volta anche i maltesi…) sono stanchi delle autorità costituite si recano in questi tre luoghi segreti e aprendo le porte che stanno nel fondo di quelle corti, se ne vanno per sempre in posti bellissimi e in altre storie.
Il Carnevale di Venezia è un paradosso. E’ un mondo intrappolato in un mondo. Ed è un mondo che intrappola il mondo. Che fa inchinare le abitudini, lacrimare le consuetudini, che ingoia la routine del quotidiano. E’ una risata dissonante di cui non si comprende la provenienza e che, pure, continua a risuonare nelle tempie.
E niente di ciò che appare potrebbe essere più ingannevole.
E niente di ciò che esplode nella pelle, sotto le palpebre, potrebbe essere più autentico.
Venezia è un modo di fuggire da casa. E un modo di tornare. Là dove ogni notte cadiamo. Là dove finiamo quando si capovolge il pensiero. E tutto diviene rovesciamento di se stesso. Là dove possiamo essere divinità. Cortigiane. Re. O saltimbanchi.
Il Carnevale di Venezia è un luogo terribilmente familiare. E’ la voce di qualcuno di cui non si saprebbe pronunciare il nome. Di qualcuno che, nondimeno, senza una precisa spiegazione da poter fornire, ci conosce più di quanto vorremmo. Il dio Pan vi osserverà dall’alto, coi suoi lascivi occhi da spia.
E’ un tintinnio di campanelli in mezzo al buio del razionale. E’ un “nessun dove” che ci appartiene e che ci possiede. Che può restare sopito e che, nondimeno, prima o poi pretenderà di essere guardato. Di essere ammirato. In tutta la sua Magnificenza.
Il Carnevale di Venezia è una domanda che ti viene rivolta, sussurrata nell’orecchio. “Quale maschera sei?”. Il narcisista Sole? La silente Stella? Il potente Doge? La mutevole Luna?
Se pronunciate piano la risposta, sarà il Plasmatore in persona, Morpheus, ad indicarvi la strada per la sala del ballo. Qui siamo tutti ospiti alla Corte del Sogno. Celebranti e celebrati.
Il Carnevale di Venezia è il richiamo febbrile di vino rosso che versa una fontana in piazza San Marco. E’ il profumo di cipria e piacere di insinuanti dame settecentesche. E’ la seduzione di una cena in penombra, tra candele bordeaux che si consumano implacabilmente, assieme al vostro desiderio. E’ il liquefarsi di ogni grossolana convenzione. E’ un regno in cui Bene e Male non sono ammessi a recitare i loro tradizionali nomi.
E’ l’esecuzione sommaria e sanguinaria di ogni esitazione.
Il Carnevale di Venezia è un bacio impresso dalle labbra morbide di un Demone.
E’ una mano avvolta in guanti neri che invita ad addentrarsi dentro il cuore di ogni desiderio. E’ un “no” che non saprete opporre. E’ un amore che non potrà mai pienamente compiersi e che, pure, saprà piegarvi al suo raffinato giogo.
E’ la luce di un lampione che, per un solo istante, manifesterà decine di sagome bizzarre avvolte in cappe scure che vi scorteranno tra canali d’acqua e perdizione. Là dove smarrirete il vostro nome e cognome. E sarete tanto più fedeli a voi stessi.
E’ la gigantesca Ruota della Sorte che attende chi se la sente di giocare col Destino.
E, alla fine, il Carnevale di Venezia somiglierà a un dubbio. A un quesito che vi offuscherà ogni altra idea. Mentre vi domanderanno se avete scattato molte foto e se il tempo era bello, voi non potrete far altro che annuire distrattamente. Sbrigativamente. Sentirete aumentare le pulsazioni. Proverete a schiarirvi la voce. E avvertirete dentro di voi un grumoso senso di colpa.
Per il Peccato che un Giullare vi avrà insegnato a sillabare,
e che la Maschera che giace dentro di voi avrà commesso.
per essere stati Assassini del Reale.
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La caffettiera era da diciotto.
Un archibugio monumentale e luccicante, che acquistammo in tutta fretta, chè quelle che avevamo ereditato da chi era venuto prima di noi erano rotte.
E tutto, in quella cucina, era gigantesco: padelle pantagrueliche, dal fondo bitorzoluto e annerito, coperchi larghi come le ruote di un carro, pentole per la pasta il cui diametro era lungo come il mio avambraccio, e che bisognava riempire versandovi dentro brocche e brocche d’acqua, chè altrimenti sarebbe stato impossibile spostarle dal lavandino al fornello. I fuochi, non si accedevano.
Io e la cuoca ci guardammo sgomente, sentendoci perdute. Lei perchè era lì per quello, e io perchè, invece, nella cucina mi ero rifugiata come luogo noto che mi salvasse da tutto l’ignoto che mi circondava, e invece anche il baluardo della cucina mi tradiva. E poi venne il capo, a dirmi che non ero lì per fare l’aiuto-cuoca, strappandomi così da ogni brandello residuale di riparo. E perciò uscii.
C’era una donna con gli occhi constantemente sbarrati di chi guarda l’abisso. Teneva la testa reclinata, e dalla bocca sbavava senza interruzione. Più tardi scoprii che era una contessa, che camminava all’indietro, che era completamente sorda: non mi liberai mai però dall’impressione che però lei sapesse ogni cosa, e quando, una volta, mi concesse la mano per tutto un pomeriggio, mi sentii una privilegiata.
C’era la figlia di un noto cantautore, notoriamente schierato a sinistra, che in quei giorni faceva il compleanno e il padre non ritenne di chiamarla, fino a notte inoltrata.
C’era un uomo che, con perfetta, seria noncuranza, ci spiegò che era un “maestro dell’occulto”. Nessuno di noi ritenne necessario contestare.
C’era un uomo nero, che aveva un buco nella testa, e non ricordava dov’era, nè i nomi di chi lo accudiva: ma ricordava chi era stato, un ex manager, e lo diceva fiero. Per lui, come a Macondo, scrivevamo cartelli con scritti i nomi delle cose, e le azioni di tutti i giorni. Una volta mi ha guardato negli occhi per dirmi: tua energia è molto grande. tu grande fuoco.
C’era una donna-bambina che non parlava, perchè non voleva e perchè aveva paura. A gesti, però, diceva ogni cosa, con uno slancio e un’energia che facevano, a seconda, sbellicare dalle risate oppure commuovere fino alle lacrime. Era completamente avvolta nel suo mondo, senza esserne perduta: sentivo che il suo sguardo mi deformava, come essere guardata attraverso una lente colorata.
C’era un ragazzo col viso di un angelo, e due occhi azzurrissimi e i capelli ricci e biondissimi: e un corpo aggrovigliato e teso, spezzato come una saetta scagliata a terra. Era sordomuto ma spalancava gli occhi, e lasciava che io gli affondassi dentro, e lo capivo. Un gesto dopo l’altro, m’insegnò come parlargli, e lo facevamo a lungo, in silenzio, scambiandoci baci e dichiarazioni d’amore, in una bolla solo nostra che rompevo quando ridevo a crepapelle. C’erano corpi storpiati e offesi e monchi, e dolori di ogni genere dipinti sui visi.
Io ero spaventata, questo l’ho già detto, e ingombra di pregiudizi mal digeriti, e di angosce non tutte insensate. Più di tutto, del contatto con i loro corpi scempiati dalla malattia, con le menti deformate dalla necessità mi pesava la sensazione che tutto fosse inutile, che tutti i giochi fossero ormai chiusi. Cosa si poteva fare se c’era rimasto così poco, se non c’era ormai più nulla? Mi sentivo fuori posto, sciatta e complessivamente inadeguata.
Camminavo rasente al muro, con la testa bassa e il sorriso incollato sul viso perchè nessuno se ne accorgesse. Ma il lavoro era tanto, e faticoso, ed era quello che in fondo cercavo: speravo che la fatica facesse alla mia mente quello che una sauna fa al corpo. Speravo di sudare via gli amori tossici e i fantasmi e gli aborti di romanticismo che mi infestavano i ricordi, speravo che i dubbi, le viltà, i ripensamenti rotolassero via per lasciare spazio a quel che davvero contava.
Me ne accorsi all’improvviso, con un certo stupore: in quel posto là ridevo moltissimo. Ridevo come ridono i bambini, per le sciocchezze che i bambini dicono. Perché lì la routine era tutto, e poichè era tutto era facile sovvertirla, sorprendersi, contagiarsi.
Ridevo, e ballavo, perchè lì, in quel posto, io sapevo con chiarezza che non avevo bisogno di nulla per essere bella: solo del mio corpo, e della musica che veniva dalle casse. Era una musica qualsiasi, buona per le discoteche, e veniva dalle casse mezze andate di un computer qualsiasi, eppure bastava per esercitare il suo incanto, perchè la narrazione lenisse le pene di molti: e man mano che la musica generava il suo mistero, tutti ballavamo.
Io, col mio sedere pesante, ma anche chi sulle gambe era malfermo, chi era affollato dai fantasmi, chi si vergognava e chi aveva paura, chi era sordo e chi era muto. E lui, che senza che me lo aspettassi affatto ad un certo punto un verso mi esplose in testa, nitido come uno sparo, e fu il primo di molti, che a distanza di mesi non hanno smesso ancora di riverberare.
E l’oceano di bisogni che ci circondava, lo sterminato ribollire delle richieste: ma le risorse erano contate, e bisognava ottimizzarle, e individuare cosa contava davvero. Il capo, che era sottile e candido come un bambino, sembrava avere una bilancia interna che non sfasava mai. Lo capii troppo tardi, non gliel’ho mai detto e me ne pento.
E dove io vedevo solo il deserto, la vita germogliava, e dove non avrei mai creduto a volte persino traboccava, buttava foglie e fiori bizzarri e incomprensibli, colmi di stupore. E quello che c’era bastava. Bastava per essere felici, bastava per sentirmi buona, bastava per arrivare dove si voleva, bastava per creare la meraviglia.
E così tornai a casa senza niente, senza voce e senza forze, tirai ogni tenda e sollevai ogni sedia, per scoprire che l’essenziale era esattamente dove avevo lasciato.
In futuro, quelli che verranno a giocare con me, non abbiano cuore.
Oscar Wilde